L’olivo ed il suo frutto vede i primi impulsi alla coltivazione intorno agli inizi del primo millennio A.C. da parte degli Etruschi, Fenici e Greci in particolare nelle colonie magnogrece di Locri, Sibari, Crotone, Squillace e Reggio Calabria; In breve tempo, questi territori assunsero un ruolo centrale nelle relazioni economiche e civili del Mediterraneo proprio grazie all’olio di Calabria, fulcro della propria ricchezza. Successivamente la coltivazione si sviluppò nella pianura tra il Crati e il Coscile, nell’attuale area della provincia del Cosenza con i Bruzii e i Bizantini e poi con i Romani che fecero dell’olio una merce assai preziosa e il Meridione divenne la “terra dell’olio” . L’ olivicoltura rifiorisce dopo il 1300 e raggiunse il culmine durante il Rinascimento. Da allora, le verdi ed argentee chiome d’ulivo ricoprono, caratterizzandole per sempre, il paesaggio e la tradizione italiana e meridionale.
Storie di lavoro nei campi, di cucina e cultura
La storia dell’ olio e degli ulivi è quindi la storia anche dei popoli che abitavano quelle terre e per molto tempo la rendita principale dei Calabresi era quella olearia. Il proprietario del fondo faceva stimare le olive a “tumanu” e il colono che faceva la raccolta a sue spese doveva corrispondergli dai 7 ai 12 litri d’olio per ogni “tumanu” e la metà della sansa. Nel “trappitu”, frantoio di una volta (lat. trapetum, id.) le olive venivano schiacciate in una pila detta “squèda” con una o più pietre a forma di ruota, fatte girare da animali attorno a un perno centrale. La pasta che se ne otteneva era detta “conzino” e veniva fatta scendere prima dentro “u mastedu” e portato presso “a maj’da”; da qui veniva messa nelle “sporte” che due operai detti “conzini” trasportavano al “conzo”, il torchio, per la spremitura. Le presse del torchio venivano azionate a mano, facendo infine ricorso, per la spremitura definitiva, ad un argano azionato da più persone. L’olio scendeva in una vasca e qui veniva separato dalla “natima” (feccia acquosa della macinatura) usando la “pilla”, che era una specie di grosso cucchiaio di latta, fornito di un sottopiatto. L’olio che ancora galleggiava sulla “natima” veniva separato con la “spica”, un fascio di spighe delle “cannizzole”, che sono piccole canne palustri.
Gli operai, che lavoravano nel frantoio, avevano competenze differenziate: c’era “u punteri” (chi segna i punti), che era il capo e aveva il compito di raccogliere l’olio, gli “sporteri”, che erano addetti al trasporto delle “sporte”, e “u palèri”, il conduttore dei buoi durante la macinazione delle olive.
Le unita di misura dell’olio potevano variare da zona a zona erano le seguenti: “a cortareda” equivalente a ½ litro; “a cannata” equivalente a 1 litro, “umicannu” equivalente a 2 litri, “a pignata” equivalente a 5 litri; “u cafisu” equivalente a 12 litri circa, ma altrove giungeva anche sino a 24 litri; “u ricipenti” equivalente a 18 litri;”uterzu” equivalente a 135 litri, cioè a 12 “cafisi” che era la quantità di quello che veniva detto “nu carricu d’ogghjiu”.
Il Mercato
Nonostante la crisi, i prodotti a marchio UE Certificati (bio, Dop, IGP) risulta ancora in forte espansione a livello internazionale sul fronte sia della domanda che dell’offerta. Con superfici agricole che, soprattutto in determinate aree, vanno ampliandosi a ritmi indubbiamente interessanti…
L’Alimentazione
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L’olio di Calabria
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